Nei villaggi sommersi che il regime nasconde

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zara90
00martedì 7 agosto 2007 14:28
Nei villaggi sommersi che il regime nasconde
(articolo tratto da Repubblica, di Federico rampini)

MANDALAY (Birmania) - Navigo da giorni sul fiume Irrawaddy e continuo a incrociare villaggi-fantasma. Solo le punte dei tetti di paglia affiorano dall'acqua. Lì sotto le povere capanne di bambù sono completamente sommerse. A tratti il fiume è un immenso e sinistro deserto, gli abitanti delle sue rive sono fuggiti per cercare cibo verso la foresta tropicale e le colline.

Restano piccoli grappoli di esseri umani isolati, rifugiati su precarie zattere legate alle cime degli alberi. Solo le cupole dorate delle pagode buddiste luccicano splendide come sempre. Nella distesa infinita dell'acqua marrone ogni tanto una coppia di contadini arranca remando su una piroga. Il fiume gli ha preso tutto e dall'acqua cercano scampoli di sopravvivenza: del pesce, qualche canna di bambù o tronco di tek trasportato dalla corrente impetuosa, piccoli tesori che forse un giorno serviranno a ricostruire le casupole scomparse sotto l'inondazione.

Il mondo intero vede in televisione il disastro dei monsoni in India e in Bangladesh, dove decine di milioni di sfollati sono in attesa di soccorsi. Nessuno sa che la stessa calamità sta stremando la Birmania, la vittima dimenticata di questa tragica estate. Eppure è un paese di 56 milioni di abitanti, la dimensione dell'Italia. Quanti milioni sono fuggiti dalla furia dei monsoni, quanti sono morti, quanti altri rischiano di soccombere alla fame o alle malattie, nessuno può dirlo. Qui non sono ammesse le televisioni straniere a riprendere le immagini dell'orrore e la sofferenza. Notizie di rivolte in India e in Bangladesh mi arrivano da un telefono satellitare; sono paesi confinanti ma da qui sembrano mondi lontanissimi e irreali.

L'emergenza è spaventosa in Birmania ma il mondo non deve saperlo. Lungo lo Irrawaddy ha visto minuscoli isolotti affollati di bestiame. Quando la piena dei monsoni ha invaso i villaggi i contadini disperati hanno messo in salvo il loro unico capitale: hanno spinto mucche, maiali, caprette verso le ultime terre emerse. Come naufraghi su isole deserte gli animali sono ormai circondati dall'acqua, non potranno resistere a lungo all'assedio del fiume. Passano i giorni e queste mucche diventano sempre più magre. Di soccorsi non c'è traccia. Dal traghetto su cui viaggio - una imbarcazione privata per turisti - ogni tanto si stacca una scialuppa di salvataggio e i marinai portano qualche sacchetto di riso, qualche tanica di acqua presa dalle nostre provviste, li portano alle zattere dove sono rifugiate le famiglie dei villaggi sommersi. Non ci sono risse quando arrivano questi miseri aiuti, solo grida festose, la gente sorride e si sbraccia per ringraziare. La dolce, meravigliosa gentilezza dei birmani non si attenua neppure dinanzi alla catastrofe. Sono sorpresi del nostro arrivo. Non si aspettano più nulla.

La Birmania, o Myanmar come l'ha ribattezzata il suo regime militare, in questi giorni sembra un paese senza governo. Intere regioni sono inondate, la popolazione è in fuga, molti raccolti sono distrutti, eppure non si vede l'ombra di un soccorso organizzato. L'esercito, la sanguisuga che divora tutte le risorse del paese, è diventato improvvisamente invisibile.

In quattro giorni di navigazione non è mai apparso all'orizzonte un aereo che paracaduti provviste, non un elicottero, niente battelli della Protezione Civile, né camion militari per portare rifornimenti dalle strade ancora praticabili. Una delle dittature più impenetrabili del pianeta, che sa essere efficiente nel bloccare i telefonini stranieri, criptare Internet o negare i visti ai giornalisti, rimane immobile di fronte alla calamità nazionale. Quei contadini che hanno sentito arrivare per tempo l'inondazione si sono rifugiati nelle arterie stradali che portano alle città, lì hanno costruito in pochi giorni delle baraccopoli di fortuna, accampamenti fatti di loculi di bambù e paglia ai cigli delle strade, con i bambini nudi che sguazzano nel fango assieme ai maiali e alle mucche.

Manca tutto, dall'acqua potabile ai medicinali nelle zone infestate dalla malaria, ma nessuno manda dottori e infermieri dalle città. Sulla stampa locale, controllata dalla censura, questa emergenza non esiste. The Myanmar Times, il tetro quotidiano ufficiale, pubblica solo notizie di ricevimenti offerti dalla giunta militare a qualche dignitario straniero in visita (di solito cinese), santifica anniversari di eventi cari alla iconografia di regime, esalta l'inaugurazione di inesistenti opere pubbliche. Le uniche foto sui giornali mostrano ufficiali in divisa e stellette, i "golpisti" rossi che opprimono il paese da quasi mezzo secolo.

La giovane birmana che mi fa da interprete (e che scongiura di non pubblicare il suo nome) conosce la ragione dell'assurdo silenzio che circonda questa sciagura: "Le Nazioni Unite o le associazioni umanitarie occidentali potrebbero venire ad aiutarci ma il governo non li vuole tra i piedi. È un copione che si ripete da anni. Tante volte le organizzazioni internazionali hanno presentato progetti per finanziare la costruzione di scuole, università, ospedali, infrastrutture. Le proposte vengono regolarmente bocciate dalle autorità. Dicono di non volere interferenze".

La Birmania paga un duro prezzo per l'isolamento imposto dal regime. Lo stesso fiume su cui sto navigando è il testimone di una decadenza umiliante. Negli anni Venti del secolo scorso, quando la Birmania era una colonia inglese, lo Irrawaddy era la più importante arteria di trasporto del paese, con 9 milioni di passeggeri all'anno e fungeva da autostrada per il traffico di merci come il tek. Oggi il "fiume degli elefanti", questo Gange birmano, è per lunghi tratti un vuoto desolante solcato da rare chiatte vetuste e arrugginite. Quasi tutto il paese è nella stessa situazione se si eccettuano piccole chiazze di modernità create dai capitalisti cinesi e indiani nelle città come Yangon e Mandalay.

La stessa caratteristica che seduce i turisti stranieri è la chiave della rovina nazionale. La Birmania è uno degli ultimi luoghi dove si possono ritrovare la diversità, i costumi, l'indolenza dell'Asia degli anni Cinquanta, o addirittura rivivere l'atmosfera del Raj britannico immortalata da George Orwell. È un crudele privilegio legato all'isolamento e alla mancanza di sviluppo economico.

L'arretratezza affascina il visitatore occidentale ma condanna la popolazione a condizioni di vita primitive rispetto ai vicini thailandesi o perfino vietnamiti. La speranza di vita media è 58 anni per gli uomini, 60 per le donne, una delle più basse dell'Asia. La mortalità infantile è al 7%, un livello quasi africano, e un quarto dei bambini nascono sotto peso per la denutrizione delle madri. Il reddito pro capite, 700 dollari all'anno, è un terzo della Thailandia ed è sotto la soglia della povertà assoluta calcolata dalla Banca Mondiale. L'autostrada numero uno, che unisce Yangon all'antica capitale di Pegu, è una gimcana fra le buche e l'ultimo strato di asfalto deve avere molte decine di anni (il che non impedisce al governo di esigere un pedaggio). La benzina è razionata nonostante il paese sia ricco di petrolio, e ai fianchi delle strade curiose bancarelle sono i punti di vendita del carburante in bottiglia, venduto illegalmente al triplo del prezzo ufficiale. Va a ruba sul mercato nero anche il dollaro, al decuplo della quotazione governativa, perché solo chi ha accesso alla valuta straniera può permettersi qualche lusso. Come il telefonino della mia guida, pagato duemila dollari: tre volte il salario di un anno per la maggioranza dei lavoratori. Le ferrovie, le strade, sono ancora quelle che costruirono gli inglesi nell'epoca coloniale. Gran parte dei camion in circolazione, americani o giapponesi, risalgono alla Seconda Guerra Mondiale. Appena si esce dalla cinta delle città il mezzo di locomozione più diffuso è il sidecar dei poveri: una bicicletta con aggiunta una terza ruota laterale su cui poggia il sedile per un passeggero aggiuntivo. Di fronte alla latitanza dello Stato l'unico welfare rimasto in piedi è il buddismo.

(6 agosto 2007)
Akela il solitario
00martedì 7 agosto 2007 14:45
Povera gente... Sola, abbandonata e muta...
La dittatura qui da noi sembra solo un vecchio ricordo da libri di storia, purtroppo si scopre che è una realtà odierna in alcuni paesi. [SM=g27992]
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