Questa storia sembra una favola ma è vera.
Questa storia dura sette giorni. O sette anni… sette secoli. Non ricordo.
Era solo una stupida vacanza. Un campo del WWF. “Vita da indiani” per essere precisi. Un campeggio pensato per bambini, ricreato poi per adulti. Campeggio, e passeggiate a cavallo. “Vita da indiani nel regno dei cavalli”, ecco il titolo preciso. Però firmando i moduli non credevo né che avrei fatto vita da indiana né che ci sarebbe stato un regno dei cavalli.
Non si svolge, questa storia, sulle nuvole, ma sui monti dell’Amiata, in Toscana. Nei pressi di un agriturismo. I cavalli… non potevo credere a quei cavalli. Liberi. Insomma, un compromesso… ma ettari e ettari di prati e colline solo per loro. Delle capanne per ripararsi dalla pioggia, se volevano. Basta. La prima volta che abbiamo visto il branco abbiamo pensato che erano tutti uguali. Ma già alla seconda, tutti quei cavalli beige dalle biondissime criniere erano completamente diversi. Tutti avevamo il NOSTRO. Per ognuno di noi, il NOSTRO era il più bello, il più intelligente, il più bravo. Ma gli altri si sbagliavano. Ovviamente la più bella, la più intelligente, la più brava era la mia.
Alla mattina lasciavamo le tende da indiano e andavamo da loro. E il branco, vedendoci, correva verso di noi. Ed ogni volta lei veniva. Da me. Ogni mattina. Mi trovava e mi distingueva come io trovavo e distinguevo lei. Si staccava dal branco, e veniva da me, da un’umana. Ogni mattina la abbracciavo, respiravo sul suo collo il suo buonissimo odore… odore di cavallo, piante, alberi… e chissà che altro. Odore di libertà… la spazzolavo, ogni mattina. Le facevo un bel massaggio. E poi lei si faceva sellare, e imbrigliare, e poi salivo. Tutti facevamo così con il nostro cavallo. E il branco ci portava in giro. Sembrava pensassero: sì, portiamoli un po’ in giro ‘sti impediti… e noi dovevamo adeguarci ai loro comportamenti… alle loro simpatie, alle loro gerarchie. Loro erano selvatici, un vero branco. Lo stallone era lo stallone, la femmina alfa era la femmina alfa. E se due cavalli si stavano antipatici mai farli avvicinare. Ma a parte questo, loro, proprio perchè erano selvatici, erano calmi e tranquilli. Erano equilibrati perchè erano cavalli, vivevano da cavalli, non venivano riposti nei box come delle macchine... non avevano bisogno di sfogarsi. Per ognuno di noi il nostro cavallo era un mito, un eroe… ma anche ai nostri cavalli non spiaceva la nostra compagnia… andavamo in giro su e giù per monti e dirupi, guadavamo laghetti meravigliosi… insieme, noi e i cavalli. I cavalli, noi, e la natura. Basta. Non ci serviva nient’altro… né a noi, né a loro. Lei era… straordinaria. Lei ha ancora un pezzo del mio cuore conservato dentro al suo. Lei era parte di me, e io ero parte di lei. Non credo che a lei interessasse quanto fossi umana. Non credo che a nessuno dei cavalli importasse. Eravamo amici e basta. Eravamo parte della loro vita, della loro gerarchia.
E al pomeriggio, tornavamo. Le toglievo la sella, la testiera. E la lasciavo andare col suo branco Libera. Vai, pensavo, dolcezza, vai libera per tutto il pomeriggio, tutta la notte. Libera col tuo branco, libera di essere un cavallo. Ci vediamo domani mattina… se vorrai venire ancora da me. E lei tornava, alla mattina. E io la abbracciavo, e tutto ricominciava. Per quante volte? Un’eternità credo…
Il pomeriggio tornavamo umani. Visitavamo paesini e boschi, parlavamo, litigavamo, anche tra noi si stabilivano gerarchie. La sera ci scaldavamo davanti al fuoco… la notte dormivamo nei tepee. E’ risaputo, io soffro di insonnia. In quella tenda ho fatto le più grandi dormite della mia vita. Tranne poche ore pomeridiane al giorno, io mi sentivo parte della natura. Un concetto ridicolo espresso così. Il mondo aveva un senso. Io stavo bene, ero rilassata e felice come mai in vita mia… mi addormentavo al tramonto e mi svegliavo all’alba; la notte mi cullavano il canto dell’allocco e delle cavallette che terrorizzavano le mie compagne, e perfino il suono della pioggia che entrava in tenda dal buco centrale. Alla mattina, si mangiava e poi, dal branco. Era tutto stupendo: semplice e grandioso, rilassante, pieno di colori, di luci di suoni… io mi sentivo parte dei suoni della natura, immersa nei suoi colori, cullata dalla sua semplicità. Ero parte di lei, della natura, tanto quanto lo era la mia splendida amica cavalla.
Poi è finito tutto… non so perché, ma ero in qualcosa di così eterno, qualcosa che c’è fin dalla notte dei tempi e ci sarà sempre e mica me lo aspettavo che potesse finire… ma è finito. Ero molto triste… andando in pullmino verso la stazione le siamo passati vicino. C’era il branco… l’ho vista. Non so che mi è preso. Volevo vedere il suo volto regale e attento che mi guardava, volevo che lei e tutto il suo mondo non mi lasciassero. Ho abbassato il finestrino e l’ho chiamata. La guida mi ha subito ripresa. Così è peggio, diceva. Ma lei mi ha sentita. Ha drizzato il capo, e le orecchie… ed è corsa verso il pullmino, staccandosi dal branco. Poi l’ho vista fermarsi, era intelligente e aveva capito che il pullmino non avrebbe frenato per noi. E poi, piano, è tornata al branco. Ho realizzato che era tutto, tutto finito... Le ho detto addio, ma non facevo altro che pensare: io da qui non me ne vado, chi se ne frega di veterinaria, mi metto in ginocchio e li imploro di farmi fare la sguattera, tutto pur di star lì… e Aky e Mos me li sarei fatti portare. Non volevo lasciare quel mondo. E mi è ancora poco sopportabile l’idea che QUEL mondo è il NOSTRO mondo, non un paradiso, il nostro, il nostro… semplice, armonico, colorato bellissimo mondo. Perché la vita non poteva essere come quella vacanza? Perché abbiamo dovuto complicare tutto e rendere questo paradiso grigio, pieno di frastuono, di stress, di agitazione, invivibile? Perché?
Ora si parla di monta “naturale”. Ora si dice: “Aprite i box… fate uscire i cavalli… state a terra con loro… imparate da loro, giocate con loro…”. Ora sempre più gente rivuole la natura… e gli animali non possono fare altro che insegnarcela.
Speriamo bene.
Spuntarono le prime stelle. Non sapeva che si chiamava Rigel, ma la vide. E sapeva che presto sarebbero spuntate tutte e che ci sarebbero stati tutti i suoi amici lontani. "Anche il pesce è mio amico"disse ad alta voce. "Non ho mai visto e mai sentito parlare di un pesce simile. Ma devo ucciderlo. Sono contento che non dobbiamo cercare di uccidere le stelle". Pensa se ogni giorno un uomo dovesse cercare di uccidere la luna, pensò. La luna scappa. Ma pensa se ogni giorno uno dovesse cercare di uccidere il sole...siamo nati fortunati, pensò. Poi gli dispiacque che il grosso pesce non avesse nulla da mangiare e il dispiacere non indebolì mai la decisione di ucciderlo. A quanta gente farà da cibo, pensò. Ma sono degni di mangiarlo? No, no di certo. Non c'è nessuno degno di mangiarlo, con questo suo nobile contegno e questa sua grande dignità.
Non capisco queste cose, pensò. Ma è una fortuna che non dobbiamo cercare di uccidere il sole o la luna o le stelle.
Basta già vivere sul mare e uccidere i nostri veri fratelli.
E. Hemingway, "Il vecchio e il mare"
Quando brillava il vespero vermiglio,
e il cipresso parea oro, oro fino,
la madre disse al piccoletto figlio:
"Così fatto è lassù tutto un giardino".
Il bimbo dorme e sogna i rami d'oro,
gli alberi d'oro, le foreste d'oro,
mentre il cipresso nella notte nera
scagliasi al vento, piange alla bufera
Giovanni Pascoli
Da bambino volevo guarire i ciliegi
quando, rossi di frutti, li credevo feriti
la salute per me li aveva lasciati
coi fiori di neve che avevan perduti...
e un sogno fu un sogno ma non durò poco
per questo giurai che avrei fatto il dottore
e non per un Dio ma nemmeno per gioco,
perchè i ciliegi tornassero in fiore,
perchè i ciliegi tornassero in fiore
F. de Andrè